ATTO 13

Credo di aver sofferto di una brutta malattia.

I sintomi compaiono in tenera età. Si nasce in una famiglia completamente disfunzionale (gli psicologi la chiamano così) . L’ambivalenza, che è stato il dolceamaro del latte materno che ho succhiato, è un rubinetto d’amore aperto e chiuso a seconda di come gira il vento.  Ci si comincia a sentire dannatamente diversi, una grossa  bolla cresce nello stomaco emotivo e comincia una lenta separazione tra se stessi e quello strano schermo vividissimo che deve chiamarsi mondo.  Gli altri, quelle con le famiglie normali,  cominciano a colorarsi come un quadro delicato e risucchiante alla cui felice composizione non potremo giungere mai. La mente inizia a nutrirsi di insane convinzioni di privazione, che col tempo si tramutano in un sentimento vero e proprio che gocciola sbrodolando in ogni dove. Iniziano a esistere gli altri sotto una campana di luce, diversi da un me che mi tocca la colonna di buio. Nutrirsi con abbondanza della mancanza.

Se le cellule avessero una testa  e un corpo potrei dire che per una trentina d’anni le mie si sono bagnate i piedi in questa poltiglia.

Io quando ero malata ero veramente convinta di essere mancante di qualcosa e questa convinzione è stata la ragione della schifosa malattia.   Forse non si può veramente guarire visto che non ci si può veramente ammalare, ad ogni modo, a un certo punto scocca l’ artificio: si inizia a credere nell’esistenza di un altra possibilità.

Ovviamente questa malattia, come tutte le malattie è un’invenzione,  cioè non esiste. Ciò che  la sostiene e la nutre è una colossale bugia,  l’unica cosa vera è che il malato non lo sa. L’unica cosa vera è che il malato non ero io.